Fare un film. Significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell'infanzia.

François Truffaut

martedì 3 agosto 2010

I Gatti Persiani

Titolo originale: Kasi Az Gorbehaye Irani Khabar Nadareh
Bahman Ghobadi
Iran - 2009

Trailer italiano

La parola "film", per la maggior parte di noi, si riferisce a un prodotto, di valenza o meno artistica, ad uso e consumo per il nostro intrattenimento, qualsiasi sia il messaggio che veicola. Noi diamo per scontato il fatto di entrare in un qualsiasi videonoleggio o sala cinematografica e poter guardare il film che abbiamo scelto. Diamo per scontato, alzandoci al mattino, di poter accendere lo stereo e riprodurre la musica che preferiamo per iniziare meglio la giornata. E se non fosse così? Se un film fosse, per esempio, l'unico strumento attraverso il quale denunciare una realtà e mostrala agli occhi del mondo? E' questo il caso del secondo lungometraggio (il primo è Il tempo dei cavalli ubriachi) del regista Baham Ghobadi: I Gatti Persiani. Il titolo fa riferimento alla proibizione, vigente in Iran, di portare fuori cani e gatti, la cui segregazione in casa viene paragonata a quella dei giovani protagonisti del film i quali, per fare musica, sono costretti a rintanarsi e nascondersi.
"Basato su fatti, luoghi e persone realmente esistenti": il regista sceglie la forma da docufiction per introdurci nella vita di una coppia di ragazzi, Negar e Ashkan, che desiderano fare musica (l'indie rock è il loro genere) e, frustrati dalle leggi e dalle restrizioni vigenti nel loro paese, sognano di andare a Londra per partecipare a un festival. Ashkan ha appena avuto guai con la giustizia a causa della sua passione e altri problemi ostacolano la realizzazione del loro progetto: la mancanza dei documenti necessari per il viaggio e di altri elementi per formare la band. Negar e Ashkan decidono quindi di affidarsi a Nader, un trafficante di dvd pirata a cui sta particolarmente a cuore la diffusione dell'arte nel proprio paese, che si tratti di musica o di cinema. Un appassionato di film europei, che possiede un merlo di nome Monica Bellucci. Il ragazzo ha i contatti giusti: si attiva per procurare visti e passaporti mentre presenta ai due ragazzi  molti musicisti underground, ma nonostante la buona volontà e l'entusiasmo molti ostacoli e difficoltà minacciano la realizzazione del loro sogno.
Guardando questa opera senza sapere nulla del suo contesto storico si concluderebbe facilmente che si tratta dell'ennesimo film sui sogni e le speranze del mondo dei giovani, qui canalizzati soprattutto verso la musica. Ed è proprio questa una delle caratteristiche che più mi ha colpita: il fatto che, nonostante  la drammatica situazione denunciata dal film, esso è in qualche modo leggero, animato com'è dalla vivacità e dalla volontà di non arrendersi dei ragazzi. Il film è stato girato di fretta, in soli 18 giorni, con una strumentazione digitale (a causa della difficoltà ad ottenere l'autorizzazione a girare film in 35 mm, proprietà dello Stato) e durante le riprese la troupe è stata soggetta diverse volte a fermi da parte delle autorità. Ogni pezzo musicale è suonato da veri musicisti underground. Non solo indie rock: anche rap etnico, hard rock, musica tradizionale persiana. La progressione della trama viene interrotta dai momenti musicali, in cui la storia letteralmente si arresta per lasciare spazio a veri e propri videoclip: sulle note della musica scorrono immagini della Teheran tanto amata, nonostante tutto, dai suoi figli. Nel film si avverte infatti questo rapporto di amore-odio dei ragazzi nei confronti della patria: il desiderio, da un parte, di fuggire all'estero (ma perchè l'Iran, come sbotta Nadir davanti all'ennesimo rifiuto di un'autorizzazione, è un paese che costringe tutti a scappare) e ,dall'altra, la voglia di restare per imporsi, lottare per un paese ricco di arte e bellezza, soffocata da un regime ingiusto.
La videocamera, incollata ai personaggi, prende per mano lo spettatore e lo porta a scoprire i luoghi più nascosti, verso il basso della terra, in scantinati, seminterrati, cortile dopo cortile, porta dopo porta, in appartamenti privati, al lume delle candele, o verso l'alto del cielo, su terrazze e palazzi in costruzione, nell'aperto della campagna, dentro le stalle (con la disapprovazione delle mucche), ovunque questi ragazzi energici, speranzosi, appassionati dicono la loro protesta pestando sugli strumenti.
 Il film è costato al regista l'esilio dal paese. In un'intervista ha dichiarato: "vorrei tornare nel mio paese, ma così posso parlare al mondo di quel che succede lì. Voglio essere un rivoluzionario in esilio, un militante della parola contro il regime. E per voi ho una preghiera: non parlate solo delle questioni sull'atomica o sui mullah, quando parlate dell'Iran, ma raccontate della realtà positiva che descrivo nel film. L'Iran è come una giovane ragazza bella, intelligente, dinamica, cui è stato fatto indossare un pesante chador e occhiali scuri. La sua immagine non è moderna, non è attraente. Ma sotto quegli abiti è ancora lei, e merita di essere scoperta".
Bahman, con questa opera, ha voluto dare un'occasione ai giovani iraniani per raccontare la loro storia ai giovani di tutto il mondo attraverso il linguaggio universale della musica.

P.S. da visitare il blog ufficiale del film. Per chi fosse interessato alla Rivoluzione Verde, consiglio il documentario di Hana Makhmalbaf.

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