Fare un film. Significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell'infanzia.

François Truffaut

domenica 2 dicembre 2012

Chronicle

Titolo originale: Chronicle
Josh Trank
USA - 2012

Trailer italiano

Andrew è un adolescente timido e introverso, senza amici né autostima, vessato dai compagni di scuola, ignorato dalle ragazze, con padre alcolizzato e madre morente per malattia. Un giorno decide di acquistare una telecamera e riprendere ogni momento della sua vita. Tutto cambia la notte in cui suo cugino Matt e un amico, Steve, scoprono una galliera sotterranea in un luogo isolato. Andrew viene invitato a seguirli per riprendere ogni cosa e i tre ragazzi si imbattono in una misteriosa struttura, lucente e rumorosa, la telecamera va in tilt e i ragazzi perdono i sensi. Dopo questo episodio, Andrew, Matt e Steve scoprono di avere acquisito dei poteri telecinetici. All'inizio riescono solo a muovere piccoli oggetti ma, con il passare del tempo e allenandosi, riescono perfino a volare. Al principio utilizzano i loro poteri per divertirsi a fare degli scherzi ma, dopo il ferimento di una persona, decidono di darsi delle regole e di tenere sotto controllo la loro forza. Tuttavia Matt e Steve non hanno fatto i conti con il fatto che anni di frustrazioni e umiliazioni hanno fatto di Andrew un ragazzo estremamente instabile e che, in seguito ai poteri, inizia a sviluppare un delirio di onnipotenza mettendo in pericolo tutti, compresi i suoi amici.
La telecinesi ha un precedente molto illustre nella storia del cinema: l'indimenticabile Carrie - Lo sguardo di Satana, diretto da Brian de Palma nel 1976. Carrie non è molto diversa da Andrew: timidi, soli, senza amici, presi in giro dai coetanei, con una situazione famigliare disastrosa. Che un personaggio con un simile background non sappia gestire poteri paranormali non è quindi una novità. 
Da grandi poteri derivano grandi responsabilità, diceva Peter Parker (Spiderman, Sam Raimi, 2002). Ai tre ragazzi, tuttavia, non passa neanche per l'anticamera del cervello l'idea di usare i propri poteri per aiutare le persone. Li impiegano esclusivamente per scopi egoistici, come divertirsi. Chronicle dunque non è un film su i supereroi, si tratta di adolescenti comuni, senza nessuna vocazione per l'eroismo o la grandezza, il che, con tutti i paladini che sono passati ultimamente sullo schermo, non è neanche spiacevole. Per lo meno di sicuro è abbastanza realistico. Come situazione ricorda molto la serie televisiva The Misfits in cui un gruppo di adolescenti si trova improvvisamente con poteri paranormali in seguito a una strana tempesta radioattiva.
Il maggior difetto di questo film è che, a mio parere, il regista si è concentrato più sulla tecnica che sulla trama. Tutta l'opera è girata con la tecnica del cosiddetto "found footage", che consiste nel fingere di assemblare vero materiale video girato con apparecchi disparati quali videocamere, telefoni cellulari, telecamere dei circuiti di sicurezza, etc. Capostipite di questo genere di film è, come dimenticarlo, The blair witch project (Daniel Myrick e Eduardo Sànchez, 1999). Altri esempi sono Rec (Jaume Balaguerò e Paco Plaza, 2007) e Cloverfield. (Matt Reeves, 2008). Il risultato è un'immagine movimentata nelle scene di azione, traballante fino alla nausea, un'immagine "sporca" e quindi realistica. Di solito le immagini provengono da una sola videocamera; in questo film il regista invece moltiplica le attrezzature di ripresa, facendo un collage da varie fonti: principalmente la telecamera di Andrew, ma (quando i ragazzi sono impossibilitati a riprendere) anche altre videocamere (quella dell'amica blogger), telefoni cellulari, telecamere di sicurezza, immagini dei telegiornali. Sembra che la maggiore preoccupazione sia quella di trovare sempre nuovi espedienti di ripresa: il prodotto risulta quindi tecnicamente molto curato e il gioco ad incastri tra le varie riprese praticamente perfetto, ma la trama ne risente. I personaggi vengono lasciati un po' a se stessi: Matt e Steve sono assolutamente trascurati per concentrarsi sul declino mentale di Andrew, che sopravviene però troppo improvviso. Sembra solo un passaggio necessario per dare il via alla catastrofe finale, a cui viene dedicato grande (troppo) spazio, ovviamente realizzata con effetti speciali mozzafiato.
Josh Trank, giovanissimo (classe 1985) regista statunitense, è al suo esordio cinematografico, dopo la regia di 5 episodi di "The kill point" (serie televisiva d'azione di otto episodi trasmessa nel 2007). I suoi prossimi lavori annunciati sembrano essere Venom (personaggio della Marvel, uno dei principali nemici dell'Uomo Ragno) e Fantastic Four. Sembra piuttosto chiaro quale strada ha deciso di intraprendere per il futuro. Non si sente certo la mancanza di film su i supereroi; c'è da sperare che Trank, oltre a realizzare film tecnicamente impeccabili, si preoccupi in futuro di dare un'anima ai suoi personaggi.

Intacto

Titolo originale: id.
Juan Carlos Fresnadillo
Spagna - 2001

Trailer (in lingua inglese)

In un deserto sorge un Casinò. Nel suo scantinato vive un uomo - Samuel  (Max von Sydow) - ebreo, anziano, di cui nessuno ha mai visto il volto. La storia ha inizio quando il suo collaboratore - Federico (Eusebio Poncela) - gli annuncia di volersene andare. Samuel tocca la mano di Federico, e qualcosa per lui cambia per sempre. In un letto di ospedale si risveglia un ragazzo - Tomàs (Leonardo Sbaraglia) -  unico sopravvissuto ad un disastro aereo, ritrovato con un mucchio di soldi nascosti addosso. Pochi giorni dopo gli fa visita una poliziotta - Sara (Monica Lopez) - che ha una vistosa citatrice alla gola e lungo il corpo. Ma anche Federico è sulle tracce di Tomàs. Una volta raggiunto, propone al ragazzo un affare e Tomàs decide di seguirlo. L'uomo non sa che Sara è sulle sue tracce, come non sa che la destinazione finale del suo viaggio con Federico è il Casinò di Samuel.
Che cosa hanno in comune questi quattro personaggi? Sono tutti dei sopravvissuti: Samuel all'olocausto, Federico a un terremoto, Tomàs a un disastro aereo e Sara ad un incidente in macchina. Quello che hanno in comune è la fortuna, in un mondo in cui la fortuna è come un bene che si può accumulare, rubare o perdere per sempre.
Meglio non aggiungere altro alla descrizione della trama per non rovinare la visione di questo film, il cui pregio principale è sviluppare in maniera imprevedibile un'idea piuttosto originale, anche se il buon livello dell'inizio non viene mantenuto lungo tutto il film. Dopo la prima mezz'ora in cui lo spettatore brancola nel buio, dopo che i pezzi del puzzle sono andati tutti a posto, il film perde un po' interesse e procede, preciso come un orologio, verso la sua conclusione. Gli eventi si incastrano con una precisione quasi geometrica e irritante, ne fa le spese la suspance e il gusto della scoperta. Rimane comunque un film ben diretto e interpretato, anche se mediocre.
Per Jaun Carlos Fresnadillo è il film d'esordio e, anche se non ha avuto un successo eclatante né gli ha portato alcun premio, gli ha sicuramente aperto le porte del grande pubblico.
Seguono: nel 2002 Psicotaxi, un corto con Alejandro Jodorowsky nei panni di se stesso. Nel 2007 dalla Spagna ci si sposta in Gran Bretagna con 28 settimane dopo (sequel di 28 giorni dopo, Danny Boyle, 2002): sequel, dicono, assolutamente all'altezza del primo film. Nel 2011 si sbarca in America con Intruders, horror-thriller con Clive Owen come protagonista. Prossimo film in calendario, solo annunciato per il momento: Highlander.
E' evidente la predilezione del regista per il genere thriller-horror. Non avendo visto gli altri suoi film non sono in grado di giudicare se il regista abbia saputo sfruttare l'opportunità delle grandi produzioni per realizzare film di qualità, o se piuttosto non sia andato a ingrossare le file dei banali cineasti di thriller-horror americani, e non.

Detachment - Il distacco

Titolo originale: Detachment
Tony Kaye
USA - 2011

Trailer italiano

La scuola. Argomento sul quale il cinema ritorna periodicamente. Il primo film che mi viene in mente pensando alla scuola è L'attimo fuggente (Dead poets society, Peter Weir, 1989) che, pur con tutti i suoi difetti, ha fatto "scuola" ed epoca. L'immagine degli alunni che salgono in piedi sui banchi esclamando "O capitano mio capitano" è entrata nell'immaginario collettivo di milioni di studenti (e non solo) a cui spesso il film è stato mostrato proprio durante le ore di lezone. In ambito italiano penso a film come La scuola (Daniele Luchetti, 1995) e a La scuola è finita (Valerio Jalongo, 2010), entrambi ambientati in una scuola superiore a Roma, incentrati sul rapporto tra ragazzi e insegnanti, ma opposti perchè il primo lo mostra in chiave di commedia mentre l'altro ha toni molto drammatici e una visione pessimista. C'è La classe - Entre les murs (Laurent Cantet, Francia, 2008) che mostra, con stile documentaristico, un anno di insegnamento di un professore di francese. C'è L'onda (Dennis Gansel, Germania, 2008) che, pur avendo come argomento principale il totalitarismo, è comunque ambientato in un liceo e racconta dell'anomalo esperimento che un insegnante di educazione di fisica decide di fare con la sua classe.
Guardando agli USA, molto spesso la scuola fa semplicemente da cornice per film adolescienzali. Si va dalle commedie leggere e romantiche come Kiss me (Robert Iscove, 1999) e 10 cose che odio di te (Gil Junger, 1999), a tutto il filone demenziale inaugurato con American Pie (Paul Weitz, 1999), fino alla declinazione "in rosa", cioè a quei film che hanno per argomento il contrasto fra le "belle" della scuola, come Amiche cattive (Darren Stein, 1998) e Mean Girls (Mark Waters, 2004). Anche se si tratta di una vastissima (e commerciale) produzione, non mancano in ambito americano film che cercano di indagare seriamente la vita degli adolescenti nel contesto della scuola: Michael Moore e Gus Van Sant si sono occupati del delicato tema delle stragi nelle scuole nei rispettivi Bowling a Columbine (2002) ed Elephant (2003) (anche se il primo in realtà è un documentario che, partendo dalla strage nella omonima scuola, si occupa del tema del porto d'armi in America). Questo è un tema piuttosto specifico; tornando all'argomento scuola in generale, grande presa sul pubblico ha il tema delle scuole che si trovano in contesti sociali degradati e quindi di ragazzi problematici. A questo proposito, si potrebbe prendere il film Pensieri pericolosi (John N. Smith, 1995) come termine di paragone per Detachment. Pensieri pericolosi è un film edulcorato, patinato, hollywoodiano, zeppo di retorica. L'insegnante di letteratura protagonista (Michelle Pfeiffer) si trova ad insegnare in una classe problematica ma, catturato l'interesse degli studenti, riesce a farli appassionare alla poesia e cambia le loro vite. I ragazzi vengono da situazioni famigliari difficili e vivono nella povertà, ma in fondo sono tutti "bravi ragazzi" che hanno solo bisogno di qualcuno che si interessi a loro e li aiuti a risolvere i loro problemi. 
Detachment inizia con una citazione di Camus: 
And never have I felt so deeply at one and the same time so detached from myself and so present in the world (non mi sono mai sentito allo stesso tempo così distaccato da me stesso e così presente nella realtà). Il protagonista è Henry Barthes (l'ottimo Adrien Brody, premio Oscar a soli 29 anni), supplente di letteratura, che viene inviato per una sostituzione in una scuola di periferia. La situazione che si trova ad affrontare vede ragazzi irrecuperabili, un corpo docente disilluso e genitori completamente assenti. Henry Barthes non crede di poter fare la differenza. Svolge il suo lavoro senza aspettative, totalmente distaccato da ciò che lo circonda. L'uomo vive all'ombra del ricordo del suicidio della madre quando era bambino e ha una vita solitaria e priva di legami affettivi. L'incontro con due giovani donne, Erica (una ragazzina che si prostituisce) e Meredith (un'alunna particolarmente sensibile) lo obbliga a riconsiderare il suo atteggiamento nei confronti del prossimo, e anche di se stesso. 
Dimentichiamoci quello che abbiamo visto fin'ora. Dimentichiamoci i ragazzi penalizzati dal contesto sociale ma pieni di speranze e di sogni e gli insegnanti idealisti che vogliono cambiare le cose. Nel film non ascoltiamo storie commoventi sui singoli alunni che possano motivare il loro comportamento. Tutto è predeterminato dal degrado sociale, economico, culturale dell'ambiente in cui vivono, unito al disinteresse delle autorità (scolastiche e non) e all'incapacità dei genitori. Gli insegnanti non sono eroi e martiri, ma persone stanche e disilluse, dalle vite miserabili e fallimentari. L'arrivo di Henry non rappresenta una rivoluzione, l'inizio di un cambiamento. L'uomo mantiene le distanze emotive sia con i suoi alunni che con il resto del corpo docente, consapevole di essere solamente di passaggio. Eppure Henry non è un insensibile. Tenta di aiutare sia Erica che Meredith, ma convinto della propria inadeguatezza finisce per allontanare entrambe. Il trauma affettivo rappresentato dal suicidio della madre ha reso l'uomo incapace di stringere legami, eppure non può evitare che le aspettative delle altre persone (donne soprattutto) si riversino su di lui. Dimentichiamoci anche il finale consolatorio: per la scuola non c'è futuro e i ragazzi finiranno per cadere nel circolo di disperazione, miseria e grigiore che li circonda. Solo per Henry alla fine del film si apre uno spiraglio di luce.
Detachment è un film cupo e disperato, lucido, freddo e implacabile. E' un film sulla incomunicabilità, con un che di poetico. Nello scorrere della storia si inseriscono rapidi flash back dell'infanzia di Henry, voci fuori campo (degli insegnanti che raccontano le loro esperienze e quella di Henry), l'animazione della lavagna su cui un gessetto disegna e cancella frasi e disegni simbolici. A tratti forse eccessivamente criptico, il film non si sforza di spiegare ad ogni costo le storie personali, ma lascia che le immagini del presente, i frammenti, raccontino la vita dei personaggi. Un uomo aggrappato alla rete metallica della recinzione della scuola, una ragazzina sdraiata sopra un mare di fotografie, una donna che si scosta dal marito che la abbraccia, la tavola imbandita dalla ragazzina che aspetta Henry di ritorno dal lavoro. Tutti questi frammenti parlano di solitudine, di rassegnazione, di fallimento.
Il regista Tony Kaye è inglese ma ha sempre lavorato negli Stati Uniti. Il suo secondo film arriva ben 13 anni dopo la sua prima opera, American history X (1998). Anche se per il grande pubblico è così, non sono stati 13 anni di silenzio: dopo lo straordinario esordio, Kaye si è dedicato alla direzione di tre film: Snowblind (2004), Lobby Loster (2007), Black Water Transit (2009) e di un documentario: Lake on Fire (2006). Film indipendenti con cast privi di attori famosi... qualunque sia il motivo, in Italia non sono mai arrivati, non li si è mai sentiti neanche nominare, e anche in America non hanno avuto una gran circolazione. Dopo il ritorno al grande pubblico con Detachment che, pur rimenendo sulla linea dei film indipendenti, vanta un cast di tutto rispetto, con stelle come Adrien Brody, James Caan e Lucy Liu, sembra che anche il suo prossimo lavoro non passerà inosservato. Si tratta di Attachment (il contario di Detachment), atteso per il 2013: il film parlerà dell'ossessione amorosa di uno studente per una insegnante (niente meno che Sharon Stone).

lunedì 14 maggio 2012

The edge of love e Il cuore grande delle ragazze.

Titolo originale: The edge of love
John Maybury
Gran Bretagna - 2008

(il film da noi è arrivato direttamente in home video)

Il film, biografico, racconta parte della vita del poeta gallese Dylan Thomas (1914-1953).
Londra, Seconda guerra mondiale, la città è sotto i bombardamenti e la cantante Vera Phillips si esibisce per i soldati e nei sotterranei della metropolitana per gli sfollati. Ricompare all'improvviso in città, e nella sua vita, l'amico di infanzia nonché primo grande amore, il poeta Dylan Thomas. Dopo qualche giorno di illusione, in cui Vera pensa di ricostruire un rapporto sentimentale con l'uomo, arriva a Londra anche la moglie del poeta, Caitlin McNamara. Dopo l'iniziale ostilità, tra le due donne nasce un rapporto di amicizia e complicità, e Vera ospita i coniugi Thomas nella piccola stanza dove vive. Nel frattempo, un ufficiale dell'esercito inglese, William Killick, si innamora di Vera. I due si sposano prima che il soldato venga mandato al fronte. Poco dopo la partenza del marito, Vera scopre di essere incinta. Decide così di tornare nella terra natia, in Galles, con Thomas e Caitlin, che raggiungono il loro figlio. La vita in Galles e la convivenza con gli amici avrà però degli effetti disastrosi sulla vita di tutti.
Dopo l'imbarazzante "thriller" The Jacket, John Maybury cambia genere passando al film storico, o meglio biografico (scelta confermata nel suo successivo lavoro: la co-regia di una serie televisiva intitolata I Borgia).
Romanzare la vita di personaggi famosi, che siano poeti, cantanti, attori, pittori o quant'altro, fa parte del lavoro di un regista che sceglie di dirigere un film biografico (altrimenti sarebbe un documentario). Personalmente non ho mai letto la biografia di Dylan Thomas (mentre conosco alcune delle sue poesie), per cui non posso giudicare quanto la sceneggiatura di Sharman Macdonald aderisca alla verità storica. Sicuramente il ritratto del poeta che risulta dal film non è benevolo: egoista, vigliacco, cinico, misogino, maleducato, presuntuoso, infantile, egocentrico sono solo alcuni degli aggettivi che caratterizzano il personaggio di Dylan Thomas (interpretato da Matthew Rhys). Caitlin (Sienna Miller) è la donna che sta dietro (e nell'ombra) del grande poeta, che lo ispira e lo accudisce, pur tra molte sofferenze. Vera (Keira Knightley) è la ragazza innamorata di un ricordo, che non riesce mai del tutto a liberarsi dell'influenza e della seduzione che il suo primo amore esercitano su di lei. La storia rimane un po' inceppata tra i meccanismi che governano i rapporti fra i tre protagonisti e, dopo la prima ora, se ne avverte la pesantezza. Il film, tuttavia, riesce nell'intento di dare vita a dei personaggi estremamente complessi, in balia di sentimenti ed emozioni contrastanti; non solo l'amore del titolo, ma anche, e forse soprattutto, la gelosia, la paura, l'orgoglio, il rimorso, il dolore. Pur essendo un film biografico su Dylan Thomas (le cui poesie vengono lette ogni tanto da una voce fuori campo), il suo è il personaggio più abbozzato, mentre molto spazio viene dato alle due donne. Forse è dai tempi di Marlene Dietrich che non veniva dato così tanto risalto ad un volto femminile sullo schermo, come avviene in questo film con Keira Knightley.

Titolo originale: Il cuore grande delle ragazze
Pupi Avati
Italia - 2011


Campagna italiana anni 30. Carlino Vigetti, figlio di braccianti, è un giovane notoriamente stupido (oltre che analfabeta) ma tutte le donne del paese cadono ai suoi piedi. Il motivo? Il suo alito che profuma di biancospino (è stato concepito dai genitori in una siepe) è irresistibile. Sisto Osti, il padrone della terra su cui vive e lavora la famiglia Vigetti, ha due figlie zitelle a cui non riesce proprio a trovare un marito. La seconda moglie Rosalia lo convince a prendere in considerazione il giovane Carlino. Per la disperazione, Sisto accetta. Il ragazzo viene comprato con la promessa di una moto Guzzi in regalo e i patti sono chiari: dopo un mese di frequentazione delle due ragazze, Carlino dovrà scegliere la sua futura sposa. Ogni sera il ragazzo si reca a casa Osti per un'ora di conversazione con le zitelle. Ma proprio nella sera che segna lo scadere del mese, Carlino incontra Francesca, figlia del precedente matrimonio di Rosalia, in visita alla famiglia. Tra i due giovani sboccia subito l'amore, nonostante il parere contrario della famiglia Osti. Riusciranno a coronare il loro sogno d'amore nonostante le difficoltà?
Pupi Avati ha alle spalle quarant'anni di carriera come regista. Con una produzione così vasta, è normale ogni tanto sbagliare un colpo. Per quanto mi riguarda, questo giro l'ha sbagliato (già il suo film precedente, Il figlio più piccolo - 2010 - non convinceva del tutto, ma lo si perdonava visto che, nello stesso anno, aveva girato un piccolo capolavoro quale Una sconfinata giovinezza). Prima di tutto non si capisce se questa commediola insipida guardi con un occhio benevolo o meno alla realtà che racconta, vale a dire la condizione di subalternità della donna in epoca fascista. Carlino, così come il padre prima di lui, è un vero dongiovanni, ma gli uomini vanno perdonati perchè, si sa, hanno "quel problemino lì", come dice Francesca. Donne indulgenti dal cuore grande... in altre parole, cretine sottomesse. Le donne sposate devono occuparsi della casa, dei figli e del marito. A quelle che "sbagliano" (la zia di Carlino ex prostituta) verrà rinfacciato l'errore per tutta la vita e non meriteranno rispetto. Quelle che non si sposano (le due zitelle e Sultana, la sorella di Carlino a cui non arrivano le mestruazioni) rimangono chiuse in casa senza contatti con il mondo esterno. Al racconto si tenta di dare quel tono di favola (a partire dal particolare del personaggio con l'alito che sa di biancospino) che accompagna la rievocazione di un passato lontano (e forse migliore?). Infatti la voce narrante è quella del fratello minore di Carlino che, una volta invecchiato, decide di scrivere questa storia in un libro. Ma di favola la storia non ha praticamente niente, non si riesce a rendere tenera una storia d'amore ridicola tra un deficiente che apre bocca solo per dire "devo fare l'amore" o "è biancospino, tutto naturale" e una ragazzetta (finta) bigotta che pensa solo a cosa indosserà la prima notte di nozze. Anche davanti al finale, ovviamente da favola, lo spettatore non può evitare di pensare "sì, e vissero felici e contenti... ma di lì a pochi anni non scoppierà la guerra?".
Cesare Cremonini è e rimane principalmente un cantante pop. Già nel 2002, sfortunatamente, qualcuno (nella specie, Valerio Andrei) aveva avuto la malsana idea di farne il protagonista di un filmetto generazionale (Un amore perfetto). Dopodiché, la sua carriera cinematografica si è limitata a piccoli ruoli in due film di Pupi Avati: Ma quando arrivano le ragazze? (2005) e Una sconfinata giovinezza. C'è da sperare che la sua carriera nel cinema si fermi qui. 
è un vero peccato invece per Micaela Ramazzotti che, dopo una lunga serie di ruoli minori in almeno una decina di film italiani dal 1997, aveva appena conquistato il pubblico con un ruolo da protagonista nel film del marito PaoloVirzì, La prima cosa bella (2010). è un peccato che al suo secondo ruolo da protagonista sia inciampata in un personaggio così detestabile e in un film così mediocre.

I padroni della notte e 1921. Il mistero di Rookford...

I padroni della notte
Titolo orginale: We own the night
James Gray
USA - 2007

Trailer italiano

New York, fine anni 80. Bobby Green è un giovane di successo che gestisce un club alla moda per conto del proprietario, il russo Marat Buzhayev. Bobby ha tutto quello che desidera dalla vita: una bellissima ragazza, Amada Juarez (Eva Mendes), un lavoro che adora, una promozione in vista e il rispetto della famiglia Buzhayev. Bobby però ha anche una famiglia di cui non ha mai parlato con nessuno: il padre e il fratello, Bert e Joseph Grusinsky (Bobby utilizza il cognome della madre, più facile da pronunciare dice), sono entrambi rispettabilissimi poliziotti. Proprio il fratello è a capo delle indagini volte a sventare un importante traffico di droga diretto da Vadim Nezhinski, nipote di Marat, che spesso frequenta il locale di Bobby. L'uomo si trova allora al centro di una guerra che vede, da un lato, i suoi soci e amici e, dall'altro, la sua vera famiglia. Quando Joseph rimane gravemente ferito da una rappresaglia dei russi, Bobby deve decidere una volta per tutte da che parte stare.
Al suo terzo lungometraggio, James Gray torna ancora ai temi a lui cari: la criminalità e i legami di famiglia. Il protagonista del suo film d'esordio, Little Odessa (1994), era infatti il sicario emigrato russo Joshua Shapira (interpretato da uno straordinario Tim Roth), che faceva ritorno alla natia Brighton Beach a Long Island per svolgere un lavoro, e riallacciare i contatti con la famiglia. Il film, che ho visto e che consiglio caldamente, ha vinto il Leone d'argento - premio speciale per la regia nel 1994. Il secondo lavoro di James Gray, The Yards (2000, ma già pronto nel 1998) non ha incontrato lo stesso successo e da noi è arrivato direttamente in home video. Anche qui troviamo criminalità e legami di famiglia e la stessa coppia Mark Wahlberg-Joaquin Phoenix che il regista chiamerà anche per interpretare i due fratelli in I padroni della notte (qualcuno sostiene che The Yards sia superiore all'omologo I padroni della notte; io non posso giudicare perchè non l'ho visto, non essendo ancora riuscita a reperirlo). è anche l'unico dei tre film di cui James Gray non ha scritto da solo la sceneggiatura: lo affianca Matt Reeves (il regista di Cloverfield).
I padroni della notte è un poliziesco molto ben diretto e costruito, con personaggi interessanti e credibili. Bobby (Joaquin Phoenix) è un uomo ambizioso che ama il successo, il lusso e il divertimento. Anche se finge di non vedere quello accade nel suo locale, lo spaccio di droga (di cui anche lui fa un modesto uso), Bobby non è un personaggio cattivo, ma semplicemente leggero e superficiale, che si burla della seriosità del fratello e del padre, che per lui rappresentano la parte noiosa della vita. Joseph (Mark Wahlberg), al contrario, è un uomo rispettoso e ligio al dovere, in una certa misura costretto a scegliere quella vita: dato che Bobby aveva preso un'altra strada, qualcuno doveva seguire le orme del padre e lavorare con lui. La figura del padre (il sempre ottimo Robert Duvall) sarà il tramite che farà ricongiungere i due fratelli. Rispetto al film d'esordio, I padroni della notte viene arricchito da scene d'azione - inseguimenti, sparatorie - eppure Little Odessa nel confronto risulta più violento e disperato, proprio perchè pacato, livido e silenzioso. Nonostante un finale un po' sopra le righe, e nonostante il conflitto sia estremamente schematizzato (poliziotti buoni/spacciatori cattivi, non ci sono poliziotti cattivi come non ci posso essere spacciatori buoni), I padroni della notte rimane sicuramente un film poliziesco di buon livello (contando la media dei film d'azione americani), pur non riuscendo a ricreare lo spessore drammatico degli esordi.
Dopo questa specie di trilogia della criminalità, James Gray sembra essersi concesso una pausa e ha scritto (con Ric Menello) e diretto (sempre con Joaquin Phoenix) l'anomala storia di un triangolo amoroso: Two lovers (2008), con successo io aggiungerei. Comunque sembra trattarsi effettivamente di una pausa: nel 2012 ha diretto - ancora inedito - The Gray Man (questa volta con Brad Pitt), la storia di un ex agente della CIA divenuto un assassino.

1921. Il mistero di Rookford
Titolo originale: The Awakening
Nick Murphy
Gran Bretagna - 2011


Londra, 1921. Florence Cathcart è una giovane donna molto brillante ed istruita che si dedica a smascherare truffe e imbrogli che riguardano l'evocazione di spirti e fantasmi. Florence, orfana dei genitori sin da bambina, si dedica anima e corpo al suo lavoro, pur traendone spesso sofferenza e infelicità. Un giorno Robert Mallory, insegnante presso un collegio maschile, si reca a chiederle aiuto: la scuola dove l'uomo lavora sembra essere infestata dal fantasma di un bambino assassinato in quel luogo, quando ancora questo era la tenuta privata di una famiglia. Alle apparizioni del fantasma è seguita anche la morte di un alunno. Florence si reca dunque a Rookford, il collegio immerso nella campagna inglese, ma, dopo aver apparentemente risolto con facilità il mistero, iniziano a verificarsi episodi inquietanti, che coinvolgono la donna più di quanto ella potesse immaginare.
Per spaventare il pubblico di oggi ci vuole veramente molta fatica. Lo schermo negli anni ha partorito una tale quantità di mostri, sia reali (psicopatici, serial killer) che immaginari (mostri di ogni tipo, alieni) da aver dato alla paura ogni forma possibile. Film come la saga di Saw e Hostel, e gli splatter in genere, ci hanno vaccinati contro l'orrore delle mutilazioni e delle violenze fisiche. Per spaventare il pubblico allora bisogna forse tornare al passato, alle vecchie storie di fantasmi, quelle che si raccontano i ragazzini nelle notti d'estate, magari con una torcia accesa, per terrorizzarsi a vicenda. Questa è la strada seguita dal regista Nick Murphy (che scrive la sceneggiatura con Stephen Wolk), che sceglie una classica storia di fantasmi che spaventa senza far vedere una sola goccia di sangue.
In un film classico sui fantasmi l'ambientazione è fondamentale per creare la giusta atmosfera: in questo senso, il vecchio collegio è veramente adatto, con le sue numerose stanze, i suoi scricchiolii e i suoi posti segreti. Anche gli espedienti utilizzati per creare tensione e spavento rientrano in un repertorio piuttosto classico: ombre, sussurri, scricchiolii, folate di vento; anche una semplice palla che rotola giù da una scalinata riesce a far accapponare la pelle. E posso assicurare che i salti sulla sedia che questo film riesce a provocare sono numerosi.
Florence Cathcart (Rebecca Hall, la Vicky di Vicky, Cristina, Barcelona - Woody Allen, 2008) è una specie di Sherlock Holmes in gonnella che, con una cieca fede nella scienza e aiutata da un armamentario di strani congegni, fa di tutto per raccogliere prove ed evitare di cadere preda delle suggestioni del vecchio collegio. Cercano di aiutarla nel suo compito il professor Mallory (Dominic West, professore anche in Mona Lisa Smile - 2003), un uomo provato dall'aver combattuto durante la Prima guerra mondiale, e Maud (Imelda Staunton, Vera Drake in Il segreto di Vera Drake - 2004) la serafica governante del collegio, ammiratrice di Florence (è lei ad averla voluta per quell'incarico). L'atmosfera del collegio e la presenza dei bambini richiama alla mente l'eccellente lavoro di Alejandro Amenàbar in tema di fantasmi: il suo The Others (2001); mentre la presenza non casuale di Florence in un luogo legato ad un passato oscuro ricorda Haunting - Presenze (1999).
Il film mantiene uno straordinario ritmo fino, a mio parere, alla scena dello sviluppo delle fotografie. Dopodiché perde qualche colpo a causa di alcune scene che, rispetto al resto del film, risultano come maldestre (lo sviluppo del rapporto tra Florence e Robert, la scena nel bosco con il tuttofare del collegio) per arrivare ad un finale non del tutto convincente e dal tono sentimentale troppo divergente con quello del film. Rimane comunque un buon lavoro, estremamente godibile, in alternativa a troppi film inutili etichettati come horror o thriller.

venerdì 11 maggio 2012

Saimir e Il resto della notte

Titolo originale: Saimir
Francesco Munzi
Italia - 2006
Trailer italiano

Titolo originale: Il resto della notte
Francesco Munzi
Italia - 2008
Trailer italiano

Saimir è un ragazzo albanese di 16 anni. Vive a Ostia con il padre, con cui lavora trasportando immigrati sul loro furgone per conto di imprenditori agricoli locali. Come molti adolescenti, Saimir desidera un po' di indipendenza dal padre, una ragazza e una vita migliore. Le sue giornate si dividono fra il lavoro e piccoli furti messi all'opera con altri ragazzini. Sarà soprattutto l'incontro con alcune figure femminili a cambiare la vita di Saimir: innanzi tutto Simona, la futura moglie di suo padre, si trasferisce a casa loro. Saimir non la accetta e la sua presenza rinforza in lui il desiderio di abbandonare la vita con il padre e andare per la sua strada. Michela è un'adolescente italiana di cui Saimir si innamora sulla spiaggia. I due stabiliscono un rapporto finchè Michela non lo lascerà, spaventata dalle reali condizioni di vita del ragazzo. Ma sarà soprattutto l'incontro con una quindicenne emigrata in Italia e avviata con l'inganno alla prostituzione a far deflagrare totalmente il mondo di Saimir.
Il resto della notte, ambientato a Torino, narra invece la storia di diversi personaggi legati da un filo comune. Maria è una donna dell'est che lavora a servizio nella casa di una famiglia borghese molto benestante, i Boarin, composta dai coniugi Silvana e Giovanni e dalla figlia adolescente. Giovanni è un imprenditore spesso assente da casa per lavoro. Silvana è una donna molto apprensiva, che non riesce a stabilire un rapporto con la figlia. Un giorno scompaiono un paio di orecchini preziosi della padrona e Maria, investita subito dal sospetto, viene licenziata. Alla donna, che non ha un posto dove vivere, non resta che tornare dall'ex fidanzato Ionuz, che in passato aveva lasciato a causa delle sue cattive frequentazioni. L'uomo infatti, che vive in uno squallido appartamento con il fratello adolescente, Victor, si dedica a piccoli furti con la complicità di Marco, giovane tossicodipendente che ha perso la custodia del proprio figlio. Le vite di tutte questi personaggi si incrociano nel momento in cui, scoperto il passato lavoro di Maria, Ionuz decide di rapinare la villa dei Boarin con l'aiuto di Victor e Marco.
Entrambi i film hanno come tema la vita degli immigrati, ma nel primo non c'è solo questo; anzi, si può dire che il vero tema del primo film sia la crescita dell'adolescente Saimir e il suo ingresso, precoce, nell'età adulta. Munzi scrive la sceneggiatura con Serena Brugnolo e Dino Gentili e vince, oltre al nastro d'argento 2006 come migliore regista esordiente, anche la menzione speciale del Premio Luigi De Laurentiis Opera Prima alla mostra del cinema di Venezia 2004. I premi, per quanto personalmente gli attribuisca una relativa importanza, sono meritati. Il film è uno spaccato lucido e mai moralistico della vita di un giovane immigrato, dei suoi sogni, delle sue speranze e delle sue frustrazioni. Saimir desidera una vita dignitosa, al contario del padre che, ormai rassegnato, considera la loro esistenza in modo fatalistico, affermando che quello è il loro "destino". Saimir cerca di ribellarsi a questo destino provando strade alternative che lo portano sulla via della microcriminalità. I piccoli furti, che per lui sono solo un modo per guadagnare qualcosa in più per vivere, fanno inorridire Michela, che lo lascia proprio quando lui la porta nel suo "posto segreto" (una casa diroccata dove i ragazzi portano la refurtiva). Saimir non accetta le regole di questo suo mondo, dove ognuno pensa per sé e chiude gli occhi di fronte alle ingiustizie, come fa suo padre, che si nasconde dietro all'appiglio del suo lavoro (io guido e basta) per ignorare la vita e il destino degli immigrati che giorno dopo giorno trasporta consegnandoli al loro destino. Proprio uno di loro, la quindicenne portata in Italia con l'inganno (lei crede di andare a Milano), porta Saimir a compiere un gesto di ribellione definitiva, dalle tragiche conseguenze, per lui e soprattutto per il padre.
Il resto della notte, di cui Munzi firma la sceneggiatura da solo, non ha vinto nessun premio ma non per questo è inferiore al precedente. In Saimir, la storia è mostrata dal punto di vista individuale di un solo personaggio, fondamentalmente buono e innocente, per cui lo spettatore può provare simpatia e solidarietà. In Il resto della notte invece si ha una visione totale e distaccata di vari personaggi e viene mostrata in modo piuttosto crudo una realtà dura e disturbante. Il film è stato accusato di dare un'immagine stereotipata, sia della borghesia che degli immigrati. Per quanto riguarda la famiglia Boarin, il padre è il classico industriale freddo e assente con la famiglia, con tanto di amante giovane; la madre è una donna rigida piena di pregiudizi (appena non trova gli orecchini incolpa subito la governante rumena); la figlia adolescente è la voce progressista della famiglia, che lega con i domestici (a torto, Maria ha veramente rubato gli orecchini). D'altra parte, gli immigrati, ma non solo - Marco è italiano, ma tossicodipendente - dunque gli emarginati, sono tutti criminali. Eppure io non parlerei di immagine stereotipata, anche se è questa la sensazione che può dare il film. L'immagine costruita dal regista è un'immagine della realtà, non l'unica possibile, ma che per alcuni è veramente la realtà. Una realtà fatta di periferie degradate, di caseggiati affollati, di lavoro in nero e pulmini che prelevano i lavoratori come bestiame, di privazioni e sacrifici, di pasti in scatolette, di attesa in un futuro migliore e di espedienti per raggiungerlo. Il pregio del film è quello di tentare di presentare i fatti senza prendere le parti di nessuno, senza retorica o moralismi. I personaggi sono definiti e agiscono spinti dai bisogni che per loro sono basilari, i sentimenti sono un lusso. Sicuramente è un film molto duro, cupo e privo di speranza.
L'intento del regista, in entrambi i casi, era quello di realizzare dei film realistici su un tema non facile, quello degli immigrati e dell'integrazione nella società italiana. In questo senso è stata ottima la scelta di attori stranieri non professionisti, quasi tutti al loro esordio sugli schermi italiani: è il caso di Mishel Manoku, che interpreta Saimir, e di Constantin Lupescu, che interpreta Ionuz.

mercoledì 9 maggio 2012

Sorelle Mai

Titolo originale: Sorelle Mai
Marco Bellocchio
Italia - 2010

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Sorelle Mai racconta parte della storia di una famiglia originaria di Bobbio (PC). Giorgio e Sara sono fratello e sorella e hanno abbandonato la casa di famiglia per intraprendere una carriera, lei a Milano e lui a Roma. A Bobbio sono rimaste le due anziane zie e la piccola Elena, figlia di Sara, oltre allo stretto amico di famiglia, nonché amministatore dei beni delle zie, Gianni. Il film segue le loro vicende dal 1999 al 2008. 
All'età di 73 anni, con questo film Marco Bellocchio realizza una sorta di ritorno alle origini. Bobbio infatti non è solamente il luogo di nascita del regista, ma è anche la location del suo film d'esordio, I pugni in tasca (1965) (un altro film con la medesima ambientazione è Vacanze in Val Trebbia, 1980). Il film nasce dall'esperienza di Bellocchio alla direzione dei corsi di "Fare Cinema" che egli tiene annualmente nel paesino natale. I primi tre segmenti erano presenti anche nel film Sorelle, del 2006.
Penso che questo film sia molto poetico, nostalgico e malinconico, un film in cui vengono messi a confronto un passato "arcaico", immutabile e sereno, rappresentato dalle due prozie, e un presente incerto, frenetico e frustrante, incarnato da Giorgio e Sara. La piccola Elena, che durante il film passa dall'infanzia alle soglie dell'adolescenza, è il futuro. Sara è una donna inquieta che non riesce a realizzare il proprio sogno di diventare attrice di teatro, ma che lo insegue con ostinazione anche se questo la obbliga a vivere lontano dalla propria figlia. Anche Giorgio non riesce a soddisfare la propria vena creativa, si imbarca in progetti fallimentari che non porta a termine, così come non riesce a mantenere una relazione duratura. Entrambi cercano di sfuggire al richiamo del paese natale, Bobbio, che può offrire loro delle certezze come una casa e un lavoro, oltre alla vicinanza con la famiglia. Eppure non riescono a starne lontani, come se il richiamo fosse irresistibile. Il passato torna in qualche modo ad essere presente nella figura di Elena che, al contrario della madre e dello zio, si adatta alla vita del piccolo paese e la vive senza problemi, crescendo felice e spensierate con le anziane prozie, tra la scuola, il fiume e l'oratorio. La generazione di Sara e Giorgio sembra non voler fare i conti con quei valori genuini del passato e con le responsabilità ed il peso che essi portano con sé. Il presente che non accetta e che cerca di liberarsi del passato è ben simboleggiato da quello che accade alla "dote" che le prozie hanno conservato per Sara e Giorgio: Sara vende la collana che le era destinata per aiutare il fratello a pagare dei debitori; la ragazza di Giorgio non accetta l'anello di fidanzamento che apparteneva alla madre di lui. 
Nonostante le difficoltà, durante il film si realizza una sorta di conciliazione tra passato e presente: Sara e Giorgio probabilmente troveranno la loro strada riuscendo a pensare al passato come a qualcosa di dolce e confortante, e non come a qualcosa di opprimente, che li tiene legati al paese. Non un luogo da cui fuggire, ma a cui ritornare con gioia. Nell'epilogo dolceamaro è l'amico di famiglia a interpretare un poetico "addio al mondo e ai ricordi del passato".
L'azione nel film sembra adattarsi perfettamente al placido trascorrere del tempo nel piccolo paese di Bobbio. Un tempo scandito dai pranzi, dalle balere, dalle passeggiate serali e dai bagni nel Trebbia. E' un film lento (placido come lo scorrere del fiume Trebbia) ma coinvolgente e commovente. Un film molto maturo, che scandaglia la psicologia e le emozioni dei suoi personaggi e le dinamiche familiari. E' soprattutto un film molto intimo, interpretato da attori quasti tutti appartenenti al "nucleo familiare" del regista: Giorgio è Pier Giorgio Bellocchio (figlio del regista), Elena è Elena Bellocchio, le due zie sono Letizia e Maria Luisa Bellocchio, mentre Gianni è Gianni Schicchi, anche lui natio di Bobbio, principalmente attore teatrale che ha lavorato con il regista in altri otto suoi film. Uniche "outsider", Donatella Finocchiaro, che interpreta Sara, e Alba Rohrwacher, nei panni di una affittuaria della casa delle zie.

martedì 8 maggio 2012

Casotto e Tutti al mare

Titolo originale: Casotto
Sergio Citti
Italia, 1977

Titolo originale: Tutti al mare
Matteo Cerami
Italia, 2011

Il remake è un'operazione cinematografica molto utilizzata e abusata. Spesso il remake non si rivela all'altezza dell'originale, né aggiunge qualcosa di nuovo. In alcuni casi il remake viene realizzato perchè, grazie alle innovazioni tecnologiche, si possono realizzare effetti speciali migliori dell'originale (basta confrontare, per esempio, Viaggio al centro della terra del 1959 con quello del 2008. Il primo rimane comunque il mio preferito). In alcuni casi proprio non ci si spiega come mai un regista abbia voluto rifare un film assolutamente perfetto: è l'esempio dell'immortale Sabrina (1954) di Billy Wilder, con Audrey Hepburn, Humphrey Bogart e William Holden, rifatto nel 1995 da Sydney Pollack, con Julia Ormond, Harrison Ford e Greg Kinnear. In altri casi è il regista stesso a girare un remake di un suo lavoro: una volta affermatosi, ripesca tra le sue prime opere potendo contare su un budget più consistente. L'ha fatto, per esempio, Michael Haneke con Funny Games (versione del 1997 e versione del 2007). Ci sono poi registi che realizzano remake di film poco conosciuti, che in questo caso non vengono percepiti dalla maggior parte del pubblico come remake ma come film originali. è quello che succede spesso, ad esempio, al filone dei film horror asiatici da cui registi spesso americani pescano a man bassa (tanto per citare i due più famosi, entrambi del regista Hideo Nakata, The ring (2002) remake di Ringu (1998), e Dark Water (2005) remake di Honogurai mizu no soko kara (2002)).
In altri casi ancora, più che di remake, si può parlare di omaggio. Sembra questo il caso di Casotto e Tutti al mare. Infatti la trama del secondo è diversa da quella del primo, ma identica è l'idea di base. Vincenzo Cerami scrisse la sceneggiatura con Sergio Citti per il film del 1977. 34 anni dopo, sempre Vincenzo Cerami scrive la scenggiatura con il figlio Matteo, riportando in vita l'idea del film del '77, che è quella di mostrare una giornata "tipo" al mare sul litorale laziale. 
Il film di Citti è geniale per il fatto di ambientare tutta la storia dentro il casotto n. 19, ovvero lo spogliatoio affittato da più persone per cambiarsi e appoggiare borse e vestiti. Molti personaggi vanno, vengono e si incontrano nel casotto, ma lo spettatore non può seguirli al di fuori della piccola struttura in legno dentro la quale, oltre dei vestiti, le persone si spogliano anche delle loro maschere, svelando la loro vera natura. C'è la famigliola composta da nonno (Paolo Stoppa), nonna, nipote, cugino (Michele Placido) e cane che sta disperatamente cercando un fidanzato per la nipote incinta (Jodie Foster). C'è una coppia di amici (Franco Citti e Gigi Proietti) che vogliono solo divertirsi e rimorchiare delle ragazze. Ci sono quelli fidanzati in segreto che sperano di trovare un po' di intimità nella giornata di vacanza. Ci sono due militari culturisti dalle dubbie inclinazioni sessuali. Ci sono due donne intraprendenti (Mariangela e Anna Melato) che devono vedersela con un impassibile agente assicurativo (Ugo Tognazzi). C'è un prete a cui la natura ha donato un bizzarro attributo e un giovane voyeur (Ninetto Davoli) che gira praticando fori nei muri dei vari casotti. Ognuno bene o male ha un segreto da nascondere, che si tratti di una gravidanza indesiderata, di attributi sessuali imbarazzanti o semplicemente di piedi troppo sporchi, che solo nello spazio protetto del casotto viene rivelato, ma solo allo spettatore. Si può pensare che l'intento di Sergio Citti fosse quello di smascherare i peccati di questi personaggi e, in definitiva, l'ipocrisia della società, anche e soprattutto alla luce di questo video in cui racconta come sarebbe dovuto finire veramente il film: tutti i personaggi perdono i vestiti e sono costretti a tornare a casa, nudi, con le loro vergogne.
La stessa ambientazione, il litorale laziale, ritorna in Tutti al mare e, anche in questo caso, lo spazio è ristretto (ma non così tanto ristretto) al bar e alla spiagga antistante. Anche qui il film si svolge nell'arco di una giornata. Nel bar, gestito da Maurizio (Marco Giallini) si incontrano vari personaggi: una coppia in crisi con amico del marito al seguito, due lesbiche (anche loro in crisi), una famiglia numerosa, una presentatrice televisiva con la badante della madre, uno iettatore, uno smemorato cleptomane (Gigi Proietti), un omosessuale con un pappagallo, un pazzo trovato svenuto sulla spiaggia e vari carabinieri, poliziotti e guardia di finanza che approfittano della loro posizione per scroccare vitto e alloggio. I personaggi però in questo caso, così come le loro storie personali, non sono per niente interessanti e non suscitano né curiosità né partecipazione. I caratteri sono abbozzati al limite della caricatura e nel film abbondano moltissimi (troppi) luoghi comuni che non fanno ridere: l'omosessuale che si porta il vibratore in borsa, le donne dell'est che vogliono sposare un uomo italiano per il permesso di soggiorno, il nonno nostalgico del fascismo, l'orientale che fa i massaggi sulla spiaggia e mangia esclusivamente riso bianco, i cinesi firmati Vuitton dalla testa ai piedi che si fanno raggirare dal tassista italiano che gli spilla duecento euro per la corsa giurando di averli portati a Posillipo. Oltre ai luoghi comuni, nel film vengono disseminate qua e là diverse citazioni di Casotto, come la sigaretta che non si accende a causa del vento e la sequenza onirica del sogno fatto da Libero de Rienzo (nell'originale da Gigi Proietti) in cui compare una donna celestiale (nell'originale Catherine Deneuve). Il nome del regista, Sergio Citti, viene anche nominato (nell'elenco dei sette re di Roma) e la citazione si può scorgere anche nel recupero di due attori presenti anche in Casotto (Gigi Proietti e Ninetto Davoli). Il risultato comunque è disastroso. Se Casotto diverte lo spettatore con i difetti e le "vergogne" di quel popolo anni Settanta che affolla lo spogliatoio, Tutti al mare lo annoia con personaggi gretti e lamentosi, che non sanno ridere delle proprie disgrazie e che, soprattutto, non coinvolgono. Se questo voleva essere un ritratto della società italiana contemporanea, non ne viene fuori un bel quadro (stesso discorso vale per il cinema italiano).

martedì 24 aprile 2012

Quando la notte

Titolo orginale: Quando la notte
Cristina Comencini
Italia - 2011

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Marina è una giovane donna sposata che decide di trascorrere un mese di vacanza estiva in montagna con il suo bambino, Marco. La donna prende in affitto una casa un po’ isolata in un paesino delle Dolomiti, il cui padrone, Manfred, è una guida alpina, che vive al pianterreno della medesima abitazione. L’uomo è molto schivo e riservato e per giorni con lui non c’è nessun tipo di contatto. La vacanza trascorre in modo piacevole, le giornate di sole all’aria aperta mitigano il fatto che di notte il bambino piange, impedendo a Marina di dormire. Presto si scopre che la donna vive in modo problematico il suo nuovo ruolo di madre, per il quale non si sente adatta. L’arrivo del maltempo la mette in crisi, costringendola in casa con il bambino che piange sempre… Manfred dal piano di sotto ascolta tutto, fino alla notte in cui è testimone di quello che non crede essere soltanto un incidente e che lo porta a soccorrere Marina e suo figlio. Da quella notte tra i due si instaura un legame molto profondo che porterà alla luce i problemi attuali di Marina e i fantasmi del passato di Manfred.
Dopo l’imbarazzante e disastroso Bianco e nero (2007), Cristina Comencini torna dietro la macchina da presa adattando per lo schermo il suo romanzo Quando la notte (edito da Feltrinelli nel 2009). Come nell’ultimo lavoro della sorella Francesca, il tema centrale è la maternità, o meglio, un lato “oscuro” di un’esperienza altrimenti gioiosa come la maternità. Nel film di Francesca Comencini, Lo spazio bianco (2009), si racconta l’esperienza di una madre che ha un parto prematuro e della sua successiva attesa in quel limbo (lo spazio bianco appunto) in cui non si sa se il bambino riuscirà a vivere, in cui un genitore non può fare altro che aspettare, senza il coraggio di dare un nome al proprio figlio. È una materia nuova per lo schermo e personalmente ho trovato molto interessante questa storia che è anche quella di molte donne di cui raramente si sente parlare. Molti fatti di cronaca invece purtroppo rendono familiare il tema del film di Cristina Comencini. La sua protagonista, Marina, soffre di un male che è l’ansia del non saper gestire un figlio piccolo, che può sfociare anche in episodi di violenza contro il figlio stesso. L’incidente che capita al bambino durante la notte, lo capisce Manfred e lo capisce subito lo spettatore (su questo non ci sono dubbi) non è un incidente, ma è Marina a fare del male al bambino che non smette di piangere. L’intervento dell’uomo salva il piccolo Marco, e di conseguenza anche Marina. Da questo momento in poi, Manfred è coinvolto, suo malgrado, nella vita della donna, che disprezza apertamente. L'uomo infatti ha un paio di scheletri nell'armadio, che non restano segreti a lungo: è la cameriera di un bar a raccontare a Marina il passato dell'uomo. La sua famiglia gestisce un rifugio, dove Manfred è cresciuto con i due fratelli e il padre perchè la madre li ha abbandonati quando erano piccoli. Inoltre, la moglie lo ha lasciato portandosi via i figli. Il duplice abbandono rendono l'uomo chiaramente mal disposto nei confronti del genere femminile ("tu le odi le donne" gli dice uno dei fratelli) e ne fanno un caso da manuale di psicologia. Manfred vede in Marina, che non si prende cura del figlio, la madre che lo ha abbandonato, e la diprezza ma finisce per innamorarsene. Di Marina invece si sa poco, quasi niente oltre al fatto che è sposata, che suo marito si aspetta molto da lei, che non lavora ma desiderebbe tornare a farlo.
Se il romanzo ha ottenuto buone recensioni, lo stesso non si può dire per il film. Addirittura deriso durante la proiezione al festival di Venezia, non è piaciuto molto neanche al pubblico. A mio parere, il più grande difetto di questo film, che basa tutto sulla psicologia dei personaggi, è quello di voler dire e spiegare troppo. Ogni sentimento, ogni emozione viene spiegata e sottolineata in dialoghi che finiscono per assumere un tono un po' irreale. Manfred addirittura trova nell'appartamento di Marina un disegno fatto da lei, in cui, accanto alla forma stilizzata di un bambino, aleggiano le parole odio amore odio amore odio amore... Questo eccesso di spiegazioni appesantisce sicuramente la visione del film, come anche alcune scene assolutamente inutili: ad esempio, Marina che si confida con la cognata di Manfred e in lacrime le chiede "perchè nessuno ti dice che è così difficile?" (essere madre intende), oppure la rissa tra i fratelli fuori dal rifugio. Il tono eccessivamente melodrammatico della vicenda rischia di far perdere credibilità alla storia (forse è per questo che a Venezia il pubblico rideva durante le scene più "drammatiche"). Un dramma psicologico dovrebbe lasciare qualche zona d'ombra, qualche incertezza, per sfruttare la suspance e la tensione che pure sono presenti all'inizio del film (un inizio promettente) ma che poi vengono appunto dispersi dai personaggi che puntalmente si mettono a spiegare tutti i perchè e i per come, rivolgendosi chiaramente al pubblico più che parlando fra di loro, il che dà ai dialoghi quel tono irreale di cui parlavo prima. Tutto deve essere spiegato e tutto deve essere portato fino in fondo, senza lasciare nulla in sospeso: questa sensazione la dà soprattuto il "doppio" finale, quando sarebbe stato sufficiente fermarsi al primo. [Chi non vuole sapere come finisce il film, si fermi qui].
Secondo me il film sarebbe dovuto finire con Marina e Manfred che si salutano all'ospedale, lasciando lo spettatore in sospeso (almeno su questo!) a domandarsi cosa ne sarà dei due, se Manfred riuscirà a recuperare il rapporto con la famiglia e la moglie, se Marina accetterà il suo ruolo di madre o manderà all'aria anche il suo matrimonio. Invece no. Arriva fastidioso come tutte le spiegazioni un epilogo che sembra un'inutile appendice, appiccicata per forza per farci sapere come va a finire la storia. Dopo quindici anni (perchè poi quindici anni? che senso ha dopo così tanto tempo?!) Marina torna nel paesino, di nuovo in vacanza ma stavolta da sola. Dopo delle assurde peripezie (la tempesta di neve) che vogliono ricreare un po' di pathos e melodramma per l'incontro fra i due (come se non ce ne fosse già stato a sufficienza! La scena delle due cabinovie che si incrociano, con lei che scende e lui che sale, e che si guardano attraverso il vetro è veramente terrificante a questo punto... ci credo che la gente rideva) Marina e Manfred sono finalmente insieme. Consumano l'amplesso lasciato in sospeso quindici anni prima per poi ritornare ognuno alla propria vita (inquadrature alternate di lui in montagna e lei in metropolitana). Poi il film finalmente finisce.
Tra le cose che non funzionano in questo film, io aggiungerei anche la scelta dei due attori protagonisti. Claudia Pandolfi (Marina) potrà anche dire "non chiamatemi più la ragazza della fiction" ma, per quanto mi riguarda, la fiction e la recitazione da fiction è una cosa che le è rimasta attaccata addosso. Anche se Virzì l'ha voluta in due dei suoi film (in Ovosodo e La prima cosa bella aveva una parte abbastanza marginale. Nel film d'esordio del fratello, Carlo Virzì (I più grandi di tutti) sembra che sarà fra i protagonisti, ma ancora non l'ho visto), così come altri registi italiani come Lucio Pellegrini (Figli delle stelle) e Guido Chiesa (Lavorare con lentezza), la Pandolfi non ha maturato le capacità di una brava attrice. Per tutto il film ha una smorfia tra il broncio e la disperazione che la rendono assolutamente insopportabile. Filippo Timi è un bravo attore (conosciuto soprattutto da quando ha interpretato Mussolini in Vincere), ma che qui interpreta un personaggio talmente introverso e rabbioso da essere quasi caricaturale, e da stupire il pubblico che Manfred parli invece che grugnire.
L'unico motivo per cui vale la pena guardare questo film è la location: anche se ambientato sulle montagne delle Dolomiti, il film in realtà è stato girato a Macugnaga (VB), cittadina ai piedi dello splendido Monte Rosa.

lunedì 23 aprile 2012

Come trovare nel modo giusto l'uomo sbagliato

Titolo originale: Come trovare nel modo giusto l'uomo sbagliato.
Daniela Cursi Masella e Salvatore Allocca
Italia - 2011


Povero cinema italiano! è quello che ho pensato appena spento il televisore. Qualcuno dirà "te la sei cercata"... ma ci sono quei giorni in cui si ha il desiderio di guardare un film leggero e allora si tenta, sperando di incappare in qualcosa di divertente ma non per questo banale. Mi è andata male.
Sofia, la protagonista del film, è una ragazza che nutre un profondo amore per i cavalli (lavora in un maneggio) e che, dopo una serie di sfortunati incontri amorosi, conclude che i cavalli sono meglio degli uomini. Decide quindi di scrivere un trattato in cui mette a confronto la psicologia dei cavalli con quella degli uomini, trovando similitudini tra i diversi "tipi" che caratterizzano entrambe le specie (lo stallone, il purosangue, il castrone, etc.). Il film segue la scansione dei capitoli del suo trattato. 
Sofia ha due amiche per la pelle: Alice e Penelope. Alice è una fotorepoter che ha rinunciato a viaggiare per amore del suo fidanzato, per ciò lavora nel campo dei fotoromanzi, che lei detesta. Penelope è un avvocato fissata con l'astrologia, che cambia uomo con la stessa rapidità con cui cambia vestiti e scarpe. C'è poi Alex, fratello di Alice, medico ma rozzo e sciupafemmine, che si troverà a dividere l'appartamento con Sofia, dopo che questa ha ricevuto lo sfratto (e che era innamorata di lui da ragazzina). Il film racconta le vicende del trio di amiche, le cui vite cambiano quando Sofia sembra aver trovato l'uomo dei suo sogni, Alice si sposa e Penelope... continua a collezionare un uomo dietro l'altro. Ma la vita ha in serbo per tutte e tre le ragazze una sorpresa.
Daniela Cursi Masella (tra l'altro collaboratrice de "La voce equestre") è l'autrice dell'omonimo romanzo da cui è tratto il film (edito da Viviani nel 2008) e firma sceneggiatura e regia con Salvatore Allocca, giovane regista con alle spalle un paio di corti (Crackers 2006 e Gunes 2011) e un documentario (L'incantatore di serpenti, la vita senza freno di Gian Carlo Fusco 2010), quindi alla sua prima vera regia. Non ho letto il romanzo per cui non posso giudicare la base da cui si è partiti per realizzare questo film, ma probabilmente le intenzioni erano buone, l'idea di paragonare gli uomini ai cavalli non è di per sé malvagia, anche se a tratti risulta un po' forzata. L'eterna lotta fra uomini e donne è un tema molto ricorrente nel cinema, a partire (ci saranno stati degli antecedenti, ma io ricordo soprattutto questo) da La costola di Adamo (di George Cukor, 1949, con Spencer Tracy e Katharine Hepburn), ma qui viene banalizzato in maniera estrema: gli uomini sono tutti infantili, irresponsabili, donnaioli, fissati con il calcio, mentre le donne sono brave, intelligenti, capaci ed esasperate dal fatto di non venire poprio capite dai maschi. Un'opposizione che viene tutta riassunta nella scena in cui Sofia e Alex devono decidere che film guardare: ovviamente, l'uomo vuole vedere un film d'azione, la donna uno sentimentale (e vince la donna). 
Lo spessore psicologico è qualcosa che veramente sfugge agli autori, che danno vita a dei personaggi contraddistinti da un'unica caratteristica veramente marcata. Così Sofia è la ragazza goffa e sgraziata che si sente a proprio agio solo con i cavalli, Penelope è la mangia uomini, Alice la brava ragazza che cerca di far funzionare il suo matrimonio sacrificando i suoi sogni, Alex il donnaiolo che si rimorchia qualsiasi donna gli capiti a tiro. I problemi arrivano e passano con una scrollata di spalle, al massimo qualche urlo o pianto che non dura più di cinque minuti, qualsiasi sia la gravità: il divorzio di Alice, la gravidanza di Penelope, il tradimento subito da Sofia proprio dall'uomo che credeva perfetto. La recitazione, da parte di tutti, è irritante, con le battute che cadono a puntino a dare un tono artefatto e falso ai dialoghi, per strappare a forza almeno un sorriso. Ad esclusione di Francesca Inaudi, che interpreta Sofia, e che ha alle spalle una lunga filmografia, tutta italiana (con qualche buon lavoro come Dopo mezzanotte di Davide Ferrario), gli altri attori provengono quasi tutti dal mondo delle fiction e della televisione: Giulia Bevilacqua (Penelope) ha lavorato soprattutto in Distretto di Polizia. Giorgia Surina (famosa come vj di mtv) in Un medico in famiglia, Il commissario Nardone, Love Bugs, RIS. Enrico Silvestrin (anche lui vj) principalmente in Distretto di polizia, più un paio di comparsate in film generazionali (Come te nessuno mai, Che ne sarà di noi).
Immaginando un potenziale pubblico per questo film, non posso che pensare alle ragazze cresciute con gli adattamenti per lo schermo dei romanzi di Moccia che ora, diventate adulte, avranno ormai capito che il principe azzurro non esiste, o comunque, che non è così facile come sembrava trovarlo. E allora ecco qui per loro un filmetto che le rassicura: gli uomini sono tutti uguali, ma non disperate! dopo tante vicissitudini troverete, nel modo sbagliato, l'uomo giusto!